1617 Alberto Azario Articoli
5 novembre, 2018

Microplastiche, un nemico invisibile della nostra salute entra a tavola con noi

La ritroviamo ovunque, nei mari, nei fiumi, sulle cime delle montagne, o nelle campagne che ancora qualcuno afferma che siano incontaminate e, senza accorgercene, la mangiamo e la beviamo. Il pericolo in questo caso ha un nome preciso, anche se è da poco tempo che ricercatori ed analisti se ne occupano, sto parlando della “microplastica” ossia quelle particelle solide insolubili in acqua di dimensioni convenzionalmente comprese tra i 5 millimetri e 330 micrometri il cui rischio reale è ancora in gran parte sconosciuto. Insidiosa ancor più della sorella maggiore da cui deriva proprio perché non possiamo scorgerla ad occhio nudo e quindi non siamo in grado di scansarla. Le microplastiche, oltre che per dimensione, possono essere classificate anche in base alla loro formazione e alla loro composizione, troviamo qui due categorie precise: la primaria, ovvero quella prodotta direttamente dall'uomo, e la secondaria, cioè quella delle particelle che derivano dalla frammentazione di rifiuti o fibre plastiche più grandi già presenti nell’ambiente. Nella quasi totalità delle particelle ritrovate, le fonti originarie di quelle secondarie sono i prodotti utilizzati dall’uomo come bottiglie, bicchieri, piatti e posate di plastica, reti da pesca, pellicole e contenitori di cibo. In base a quanto riportato dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) nel 2017, neppure l'Italia è esente dall'inquinamento da microplastiche: il Mediterraneo è, infatti, uno dei mari più inquinati al mondo, tant’è che vi si concentra il 7% delle particelle di plastica a livello globale. Dati confermati anche dai campionamenti effettuati da Greenpeace nell'estate del 2017, secondo cui il livello di microplastiche presente nelle acque marine superficiali italiane è paragonabile a quello dei vortici oceanici nel Nord Pacifico. 

Non esistono oggi risposte univoche o facili riguardo al pericolo che questa “invasione” delle microplastiche possa portare oggi alla nostra salute poiché la catena di questa contaminazione appare molto lunga ed estremamente complessa. Ogni essere umano, senza saperlo e senza rendersene conto, produce ogni giorno grandi quantità di particelle plastiche. Lavare una sola maglietta sintetica in lavatrice, ad esempio, può produrre 1.900 microplastiche, ma sono tantissime le attività umane che rilasciano nell’ambiente quantitativi di particelle piuttosto elevati: lo scrub facciale, l'uso di alcuni shampoo e saponi, l'uso dell’eyeliner, della crema solare, di detergenti esfolianti, ma anche di dentifricio e spazzolino, ad esempio.

Sono ormai anni che nelle analisi microscopiche che vengono eseguite dai diversi laboratori di ricerca, praticamente in ogni cosa venga analizzata, se ne trova in quantità. Quantità impressionanti sono state trovate nella carne dei pesci, nel sale marino, nelle acque di ogni tipo, persino, con alti valori, nel nostro miele italiano. Inevitabile, quindi, che una più recente ed attenta ricerca svolta su diverse marche di drink abbia portato alla luce che praticamente nessuno dei vari brand esaminati fosse immune a questo invisibile residuo di quelli che sono i polimeri oggi di maggiore uso: polietilene, polipropilene, polistirene, poliammide, polietilene tereftalato, polivinilcloruro, acrilico, polimetilacrilato. Uno studio condotto dall’associazione no profit Orb Media, i cui dati sono stati pubblicati dal Guardian, ha riscontrato la contaminazione di microplastiche nell’acqua di rubinetto dei Paesi di tutto il mondo. Con valori, indicati in mmp/l (microparticelle di plastica per litro) che variano nelle acque minerali in bottiglia da 3,72 mp/l a 2,27 mp/l a valori da 0,91 mp/l a 9,24 mp/l nel caso dell’acqua di rubinetto di paesi come la Germania nel primo risultato e gli Usa nel secondo. Per realizzare tale misurazione è stato utilizzato un metodo che fa uso del cosiddetto “Nile Red” un colorante che, legandosi preferenzialmente ai materiali polimerici rispetto a quelli organici, riesce a consentire il rilevamento rapido e la quantificazione delle microplastiche grazie alle sue caratteristiche di assorbimento, di selettività e proprietà fluorescenti. Seppur contestato da alcuni, tale metodo rimane però oggi uno dei più evoluti tra quelli disponibili, sufficiente da solo ad identificare una particella di natura polimerica senza la necessità di ulteriori analisi spettroscopiche (riducendo così il tempo necessario per analizzare un campione ambientale).

Senza voler fare classifiche tra quali marche siano più contaminate di altre, le ultime analisi nascono invece con l’intento di aprire una discussione sul tema e fotografare un fenomeno come quello della contaminazione da microplastiche in un settore industriale ancora non monitorato, come quello dei soft drink. In comune, infatti, le bottiglie messe sotto esame avevano solamente il fatto di essere ovviamente tutte in plastica. Tipologie diverse di prodotto o brand non hanno però cambiato di molto il risultato finale di questa analisi: la microplastica a tavola è così servita. Pur con le differenze del caso e dei vari brand presi in esame, si tratta comunque di una presenza sgradita che, dunque, non dovrebbe trovarsi in nessun contenitore per alimenti o bevande oggi in commercio. L’unica certezza adesso è che tutti, produttori in primis, una volta giunti a conoscenza del problema, debbano agire attivamente per evitare di continuare ad avvelenare tutto ciò che ci troviamo attorno.

Alberto Azario