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14 marzo, 2019

La corsa ad ostacoli dell’economia circolare: un decalogo per ripartire

Troppo spesso nel nostro Paese il quadro legislativo si presenta inadeguato e contraddittorio tant’è vero che oggi l’economia circolare in Italia sembra costretta ad una corsa ad ostacoli normativi, peccato poiché più riciclo vorrebbe dire anche meno rifiuti, meno sprechi, meno emissioni, ed allo stesso tempo, nuovi posti di lavoro e investimenti. Molti sono giunti a questo parere, me compreso, eppure investire sull’economia circolare converrebbe sia al bilancio dello Stato, sia all’ambiente sia alla salute dei cittadini. In occasione del convegno “La corsa ad ostacoli dell’economia circolare in Italia” si è parlato proprio di questo, occasione in cui tra l’altro Legambiente ha presentato un decalogo per sollecitare Governo e Parlamento a fare di più per un settore fondamentale ed imprescindibile per l’economia del Paese. Già due anni fa era avvenuta la denuncia sul fatto che in Italia l’economia circolare fosse incoraggiata a parole ma «ostacolata da una normativa ottusa e miope» per un cambiamento che ancora oggi tarda ad arrivare nonostante il 2018 sia stato l’anno dell’approvazione del pacchetto europeo sull’economia circolare. Tempo è ora di attuare tale disposizioni comunitarie, ma finché ciò avvenga è importante prima eliminare gli ostacoli non tecnologici che nel nostro Paese sono ancora presenti.

I primi quattro punti del decalogo si riferiscono alla definitiva approvazione delle norme sull’End of waste, all’implementazione di ulteriori impianti per il riciclo ed il riuso, all’autosufficienza delle regioni (introducendo una tariffa puntuale e obbligatoria per ridurre e prevenire la produzione dei rifiuti grazie ai sistemi di raccolta domiciliare), ad una nuova eco-tassa sui rifiuti in discarica basata sui quantitativi pro capite di secco residuo smaltito. Del primo punto molto si discute da tempo: il 33% dei rifiuti urbani e speciali (pari a circa 55 milioni di tonnellate, su un totale di 165 milioni, che comprende anche quelli pericolosi) sono in attesa, infatti, dei decreti “End of waste (EOW)” per semplificare il loro riciclo, sottraendoli alla discarica legale o abusiva. Questo è un primo passo da fare che non può più essere rimandato, il riciclo dei rifiuti va, infatti, semplificato al massimo altrimenti il rischio di dover aumentare i rifiuti di origine domestica o produttiva in discarica, al recupero energetico o all’estero diventa sempre più concreto. La normativa europea di recente approvazione è dopotutto chiara: entro il 2035 dovrà essere avviato a riciclo almeno il 65% dei rifiuti e conferito un massimo del 10% in discarica, indirizzando così il rimanente 25% a recupero energetico. In Italia non vi è ancora, però, un’adeguata rete impiantistica a supporto di queste operazioni, che richiedono per essere attuate una gerarchia precisa, inoltre la scarsità degli impianti industriali dedicati fa sì che in molti contesti territoriali si assista ancora oggi ad un trasferimento dei rifiuti raccolti in altre regioni o all’estero (emblematico il caso di Roma dove circa 1/3 dei rifiuti vengono portati fuori provincia o regione). Intanto le filiere del recupero sono a rischio, mettendo in pericolo le migliaia di posti di lavoro collegati, fino a palesare in alcuni casi rischi per i servizi di igiene urbana. Un immobilismo che, paradossalmente, incide soprattutto sulla capacità di inseguire uno sviluppo più sostenibile e che ci racconta un Paese immerso nelle contraddizioni e diviso tra il sostegno in politiche green, diffuso tra gli opinion leader, e le reazioni “Nimby” (acronimo di “Not in my back yard” - non nel mio cortile) riservate a questi progetti sul territorio. Nell’era del dissenso di fronte a tutto in cui stiamo vivendo le contestazioni sul tema invece calano, calano proprio perché diminuiscono le opere in cantiere, immagine plastica questa di un Paese fin troppo bloccato. Necessario sarebbe qui, invece, ripartire dalla certezza del diritto, dall’ascolto attivo del territorio e da una politica più coraggiosa che non abbia paura di affrontare e gestire il malcontento, per investire davvero nella modernizzazione e nello sviluppo del Paese. Maggiore senso di responsabilità e confronto aperto sulla comunicazione sarebbe l’unica soluzione per continuare ad andare avanti senza freno a mano tirato.

Ulteriori proposte presentate dall’associazione ambientalista sono quelle legate alla costruzione di un mercato dei prodotti realizzati con le norme relative al Green Public Procurement, nonché l'applicazione obbligatoria dei Criteri ambientali minimi nelle gare d'appalto; al rafforzamento del sistema dei consorzi obbligatori; la garanzia di  controlli maggiori lungo tutta la filiera dei rifiuti, urbani e speciali, per combattere la concorrenza sleale e i traffici illeciti; un ulteriore contrasto alla vendita dei sacchetti fuori legge e l’approvazione in tempi rapidi del disegno di legge Salvamare sulla plastica monouso, ed, infine, l’abbattimento dell’uso della plastica per l’ortofrutta nei supermercati. Si parla qui di “una nuova economia, più sostenibile e a basso impatto ambientale, che proprio in Italia ha trovato un terreno fertile grazie alle tante realtà virtuose presenti sul territorio che, però, lamentano di essere lasciate sole e in forte difficoltà per un quadro legislativo inadeguato e contraddittorio”. Investire sull’economia circolare conviene invece: al bilancio dello Stato perché riduce le importazioni di materie prime, all’ambiente e alla salute dei cittadini. Citando le parole conclusive del Presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani: “L’economia circolare non è solo un modo per uscire dalle tante emergenze rifiuti ancora dislocate in Italia, vuol dire creare investimenti, occupazione ed economia sul territorio, ma bisogna avere il coraggio di andare in questa direzione.”

Alberto Azario