1483 Alberto Azario Articoli
1 luglio, 2019

Europa, la prossima decarbonizzazione passa, anche, da biometano ed idrogeno

Il Parlamento europeo, relativamente all'utilizzo del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) e del Fondo di coesione (FC) per il periodo 2021-2027, ha fermato gli investimenti comunitari destinati ai combustibili inquinanti come petrolio ed idrocarburi. Una rivoluzione “green” che è stata recentemente approvata a Strasburgo (con 475 voti a favore, 93 contrari e 53 astensioni) e che riguarderà tutte le regioni europee stabilendo che l'assegnazione dei finanziamenti si baserà sul prodotto interno lordo (PIL) pro capite, anziché in base al reddito nazionale lordo. Gli eurodeputati hanno chiesto inoltre di aumentare dal 6 al 10% gli investimenti per lo sviluppo urbano sostenibile e di rivolgere un occhio di riguardo alle regioni ultra periferiche dando precedenza all’ambiente. Il testo approvato chiede anche di destinare una parte significativa delle risorse del fondo FESR post 2020 alla "crescita intelligente" e alla green economy, stabilendo che le regioni spendano dal 30 al 50% dei finanziamenti del FESR in questa direzione e che un altro 30% venga destinato alla lotta contro il cambiamento climatico e a favore dell'economia circolare. Una decisione questa che prosegue nel solco delle misure della Commissione Europea per disincentivare l’utilizzo di combustibili fossili, misure iniziate con la "Circulary economy" nel 2015, e ribadite da Bruxelles con la comunicazione "The role of waste-to-energy in the circular economy" del 26 gennaio 2017.

L’Europa aspira ad essere la prima grande economia al mondo a diventare neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050. Considerando che l’80 % delle emissioni europee di gas serra proviene dal settore energetico, raggiungere questo obiettivo implica però una rivoluzione dei modi sia in cui si produce l’elettricità sia in cui si alimentano i nostri trasporti, le nostre industrie e i nostri edifici. Raggiungere l’importante obiettivo, almeno dal punto di vista tecnologico, è complesso ma fattibile. Sotto il profilo dei costi, infatti, l’eolico ed il solare sono divenute ormai tecnologie competitive, presto lo saranno anche le auto elettriche. Grandi aspettative si hanno inoltre dal gas naturale che potrebbe presto essere decarbonizzato attraverso biogas, biometano, idrogeno e altri gas “green”. Infine le varie innovazioni nella digitalizzazione e nell’intelligenza artificiale contribuiranno a questa rivoluzione necessaria, consentendo integrazioni tra settori diversi e maggiore efficienza. Citando poi un recente studio commissionato dal Consorzio Gas for Climate (che riunisce sette aziende europee nel trasporto gas e due associazioni attive nel settore del gas rinnovabile) l’obiettivo europeo potrebbe essere presto raggiunto, con possibili risparmi per circa 217 miliardi di euro l’anno, e con soprattutto l’eliminazione completa delle emissioni di CO2. L’Europa dispone, infatti, per raggiungere questo ambizioso traguardo di un potenziale ragguardevole: il gas rinnovabile, prevalentemente biometano e idrogeno, di 270 miliardi di metri cubi da immettere nelle infrastrutture esistenti, indispensabili per fornire questi crescenti quantitativi di gas rinnovabile agli utenti finali. Il potenziale di idrogeno e biometano, accanto all’elettricità prodotta da rinnovabili, sarebbe così in grado di assicurare al continente una transizione energetica meno costosa possibile, svolgendo, inoltre, un ruolo chiave nel riscaldamento domestico, nei processi industriali, nella produzione di energia elettrica e nei trasporti pesanti. La conclusione di questa ricerca, in sintesi, è quindi che il gas pulito può avere un ruolo decisivo per ridurre progressivamente le emissioni di anidride carbonica nei prossimi decenni. Anzi il gas rinnovabile (biometano, idrogeno e metano sintetico) e il gas low-carbon, cioè combinato a tecnologie di carbon capture and storage (CCS) o carbon capture and utilisation (CCU), saranno sicuramente decisivi nella realizzazione di un futuro energetico ad emissioni ridotte, sostenibile e totalmente rinnovabile.

Il grande collo di bottiglia per il cammino dell’Europa verso la “carbon neutrality” non è stato però fino ad oggi la tecnologia ma la politica. Nell’ultimo decennio, il sistema elettrico europeo si è modernizzato ed è diventato più ecologico, ma ha anche mantenuto la sua componente più antica e inquinante: il carbone che continua a svolgere un ruolo importante nella generazione elettrica per diversi paesi europei: l’80 per cento in Polonia e oltre il 40 per cento in Repubblica Ceca, Bulgaria, Grecia e Germania. Dalla Francia all’Italia, dai Paesi Bassi al Portogallo, finora solo una dozzina di paesi europei si sono impegnati a chiudere completamente le loro centrali a carbone, quasi tutti entro il 2025-30. I paesi dell’Europa orientale, quelli che usano la quota maggiore di carbone per produrre elettricità, invece non hanno ancora nemmeno discusso strategie di questo tipo. Il carbone è attualmente estratto in quarantuno regioni presenti in dodici paesi europei ma dal punto di vista climatico è la fonte peggiore per generare elettricità, anche rispetto ad altri combustibili fossili. Proprio per questo, l’Unione europea dovrebbe intervenire e offrire il proprio sostegno affinché le regioni minerarie possano affrontare agevolmente questa transizione. In questo modo il danno politico sarebbe ridotto e si incentiverebbero i paesi più dipendenti dal carbone ad avviare o accelerare i loro piani di phase-out. Il cambiamento climatico è un problema globale complesso che ha bisogno di soluzioni internazionali. Ma è chiaro che il carbone deve essere abbandonato, e possibilmente in fretta per raggiungere la carbon neutrality entro il 2050.

Alberto Azario